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Manzoni sbagliava: le vocazioni di Milano eredi del periodo - d'oro - spagnolo

di Marcello Menni Mancano poche settimane al 150 anniversario della scomparsa di Alessandro Manzoni. Il padre della lingua italiana ha sicuramente molti meriti e giustamente ne è fiorito un culto affettuoso, anche se non sempre convinto e entusiastico come quello di Dante.

Fra i tanti meriti, un demerito, lo si può trovare in uno degli aspetti fondanti del suo grande romanzo. "I Promessi sposi" come tutti le grandi storie ha la necessità di trovare i deuteragonisti: fra i tanti "cattivi redenti" (l'Innominato, la Monaca di Monza, lo stesso don Abbondio), i veri malvagi sono e rimangono in tante e diverse forme gli Spagnoli.

Emblema della violenza e della arroganza Don Rodrigo ("uomo senza originalità e grandezza", secondo la definizione di Luigi Russo) morirà malamente. E' accompagnato dalla sua masnada di bravi, emblema di un “milanesado” pericoloso, insicuro, percorso da bade e briganti. E quel "milanenesado" è governato dalla sottigliezze del Cancelliere Ferrer, e dalle gride inefficaci di un governo pieno di sicumere, ma inefficiente e grifagno. Tutto questo riassume il mito di una denominazione da odiare, topos della letteratura Risorgimentale. Che poi il Manzoni avesse vecchie ruggini familiari è una storia ben poco raccontata. La prima moglie del nonno Beccaria appartenenva alla nobiltà spagnola e fu un matrimonio disastroso, con corollari di discordie familiari e spiacevolezze, che vivranno con ogni probabilità nel lessico familiare di Casa Manzoni ancora a lungo.


E per oltre cento anni, Manzoni e i suoi sodali, dal Grossi ai Verri, ma anche il Cantù (si veda la incredibile ma paradigmatica storia del Marchese Annibale Porrone) hanno così creato il mito della denominazione malvagia, peggio ancora di quella austriaca, quantomeno efficiente e resa più digeribile dai riverberi di un Illuminismo che certo aveva combattuto superstizione e violenze "medioevali". E agli antipodi di quella francese, quella dei francesi del Trivulzio, delle truppe del Direttorio o dell epopea napoleonica.

Gli Spagnoli sono sinonimo di tre stgmi: decadenza economica, insicurezza, prevalenza della violenza e dell'abuso.

Negli ultimi 50 anni una serie di studi sempre più serrati e approfonditi sulle fonti dell’epoca hanno presentato una realtà assai diversa. Se il prof. Sella ha smentito il mito della decadenza economica dopo l’estate di San Martino del Periodo Borromaico, delineando una Milano certo non in espansione ma che resse la congerie europea caratterizzata da una conflittualità al calor bianco, si pensi solo alla sanguinosa guerra dei 30 anni che impoverì e spopolò l’intero continente, la storiografia ha messo in luce una realtà complessa dove la dominazione iberica era fortemente interconnessa alle elite locali, che affermarono in quel periodo, riusciva a garantire un quieto vivere, tassando sì la popolazione, anche se in maniera non tanto insopportabile da non provocare nessuna rivolta popolare nei quasi 150 anni di denominazione.


Ma soprattutto proiettando, e per la prima volta in maniera decisa e non legata alla volontà di qualche signore, da Gian Galeazzo Visconti a Ludovico il Moro: finita, anche per la crisi internazionale il tempo delle manifatture, prestigiose ma eredi di una tradizione medioevale dominata dalle congregazioni di arti e mestieri (gli armorari, gli spagari, i lanieri...) che non reggevano la concorrenza delle moderne manifatture del nord Europa, inizia una nuova fase: Milano è il cuore dell’impero perché al centro della cruciale linea strategica che univa il Mediterraneo ai Paesi Bassi, linea strategica per le guerra con i bellicosi vicini la Francia e il mondo protestante. Ma anche per i commerci internazionali.

Ed ecco che Milano si trasforma in un grande "Secondary market", per le merci del contado (che si trasforma in uno dei centri della cerealicoltura come sarà per i secoli futuri e per la seta, il semilavorato più redditizio fino all’800) ma anche per le merci da tutta Europa, in particolarmodo per il mondo tessile.

L’idea che Milano è una città viva e popolosa, una grande emporio come Amsterdam, Londra o Parigi ci viene confermata dall’illustre e non certo sprovveduto visitatore Louis De Montaigne.

Non solo: Milano grazie a Genovesi e a una serie di scaltri borghesi e nobili locali si inserisce nella gestione dell’immenso flusso di denaro che serve per la guerra mondiale della Spagna Imperiale, che ha disperatamente bisogno di banchieri e finanziatori, dopo la fine dei Fugger.


Ed ecco che Milano diviene capitale finanziaria dell’Impero, facendo non solo la fortuna di poche famiglie (i Durini, gli Arese, i Litta) ma di un poderoso indotto che rende Milano la capitale di un arte certo meno visibile ma non meno interessante: argentieri, orafi, ricamatori…

Ed ancora, Milano sotto gli Spagnoli, e grazie alla prosperità di quel periodo fanno sì che si affermi un sistema sanitario che si affermerà nei secoli con i due grandi polmoni dell’Ospedale maggiore, e dell’Università di Pavia, che fornisce innovazioni e menti….

Da ultimo gli Spagnoli non schiacciano, come succedeva nel centralismo Francese per non parlare dei territorio della Riforma, l’autonomia della Chiesa, che pure con i Borromeo assume un carattere intransigente e rigorista, finendo per essere la testa d’ariete e la palestre della complessa riforma Tridentina, ma creano con essa un "modus vivendi", che facendo di essa un potere visibile ed integrato la rendono, anche grazie alla sua ricchezza e alla sua capacità di autodichia (libera com’è da giuspatronati ed intrinsecamente connessa con d’élite milanese, che ne copta non solo i quadri ma anche i capi), un punto di riferimento come lo sarà per secoli.


Non si ometterà poi che nonostante le grandi ricostruzioni ‘800 e ‘900, e i bombardamenti del ‘43, l’assetto dalla città - la centralità del Duomo, la città basata su percorsi concentrici, la presenza di arterie di parata e di scorrimento come via Larga, corso Venezia o corso di Porta Romana - rimane legato essenzialmente al più importante intervento pubblico del ‘500: le mura spagnole. Dettate dal desiderio di proteggere, obiettivo raggiunto, il cuore dell’impero (e la forma simbolicamente segnava questo disegno nella topografia) dal nemico Francese e dall’infido vicino Svizzero, le mure definiscono l’assetto della città delimitandola fino al 1884.

E porta con il suo immenso indotto, non solo finanziato dalla ricchezza locale, ma da quella ben più ingente delle Americhe e del Regno di Napoli, l’immensa fioritura dell’edilizia pubblica (Palazzo Reale e riassetto del centro, oltre che l’ambizioso progetto del Naviglio Pavese, abbozzato dal Fuentes), religiosa (la Facciata del Duomo, San Fedele e Sant’Alessandro, prototipo del Barocco).

Ed ecco che la Milano spagnola precorre le vocazioni di Milano della modernità: la moda, il commercio e la borsa, le banche, la grande produzione agricola intensiva, ma anche la cura, con la vocazione ospedaliera e la centralità della Chiesa.


Il tutto in una salsa glocal molto ambrosiana, fatta di vocazione internazionale mai tramontana, di operosità nutrita dalla sua apertura verso le migliori forze da tutto il mondo, e di élite, spesso con radici profonde e interconnesse che fino a tempi recenti (la "borghesia storica milanese", era il motto di Assoedilizia) hanno determinato la vita della città, anche per i suoi legami familiari, amicali e di interessi.

Una eredità che si riverbera nella forma Urbis della città, che come si è detto è Spagnola nel cuore. E dettaglio di costume nella cucina con la sua Cassœula, i suo mondeghili e il suo riso al zafferano eredi di una denominazione, che è ha lasciato molto, anche se - per una cattiva pubblicità anche del Don Lisander - la percepiamo tanto poco.

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